Qualche anno fa ho avuto l’opportunità di entrare a documentare fotograficamente nella mia città quello che succedeva in una moschea durante l’ora di preghiera.
Non ricordo l’ora esatta. Ero a Brescia.
Mi recai dall’ imam con il quale avevo appuntamento e mi presentai. Ricordo che la maggior parte dei presenti storceva il naso alla vista di una fotocamera.
I componenti di un nucleo religioso così particolare sono sempre molto diffidenti a rendere pubblico quello che è il loro luogo di preghiera, e quello che succede al suo interno. Ma ce la feci.
La moschea inizialmente era deserta. Aspettai qualche minuto, e in pochissimi istanti vidi arrivare centinaia di persone improvvisamente con ogni mezzo: a piedi, in auto, in moto, in bicicletta.
Avete presente un flash mob in piena regola? Stessa ora stesso posto con estrema precisione.
Feci per muovere i primi passi verso l’interno quando un componente mi ricorda che non si può entrare nella moschea senza prima aver tolto le scarpe.
Senza battibeccare faccio come da istruzioni e ripongo le mie scarpe in borsa.
La prima cosa che mi stupì infatti fu quella immensa e interminabile scarpiera dove ogni persona posava il suo paio di scarpe, mescolato alle altre, prima di accedere alle sale di preghiera. Dalla sala principale parte una flebile musica di sottofondo, uguale a quelle melodie che sentiamo solo nei film girati in paesi mediorientali.
Nel bel mezzo della melodia si appresta a salire su una specie di altare con un leggio un componente della moschea, bardato sul capo con il classico foulard bianco e rosso a piccoli quadrati e greche. Mi sfugge l’esatta definizione dell’indumento.
Doveva essere il secondo imam della moschea perché all’improvviso a tono alto di voce inizia un interminabile discorso dai toni sempre più accesi, come quando litighiamo con qualcuno, o come quando un politico al comizio del suo partito punta il dito contro il più acerrimo nemico all’opposizione.
Mi spiegarono invece che era tutto calmo e tranquillo, era il rito, la preghiera, era colui che guidava il resto della moschea nella venerazione di Allah.
La sala principale era un immenso capannone che presentava forse un migliaio di posti a sedere. Si fa per dire perché non vi erano sedie ma un gigantesco unico tappeto sul quale ognuno poteva chinarsi alla preghiera, chi con le calze, chi a piedi nudi.
Approfittando di un momento di distrazione delle mie “guide” turistiche della moschea, vado a perlustrare le zone adiacenti e con mio grande stupore mi accorgo che in una stanza totalmente separata vi era un angolo preghiera per sole donne.
Ogni religione ha il suo credo, ha le proprie usanze e regole, ma in quel momento mi chiedevo la differenza fra pregare insieme o separati.
Mentre ritorno verso la moschea principale noto che nei vialetti circostanti vi erano persone chine a pregare ovunque, anche all esterno. Erano passati circa 30 minuti dall’inizio della mia visita, e uno dei responsabili mi fa notare che era giunto il momento che io abbandonassi il luogo.
Non chiedetemi perché.
Forse quel poco di islam che avevo appena scoperto era abbastanza per loro, e non sarei potuto venire a conoscenza del resto. Questo purtroppo non lo saprò mai. Resto contento però del fatto di essere riuscito a penetrare in una realtà come quella islamica e ad aver potuto documentare questo mondo poco conosciuto.
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