Questa è la storia di una strada, di una corsa, di Sacco e di Penna. Lettore, custodiscila: bella o brutta che sia, è la mia storia.
Io corro per scappare.
Non c’è contentezza per me o punto di arrivo. Sono nomade fuori e nomade dentro. Le conseguenze di questo gioco crudele sono le ginocchia doloranti per la corsa, le mani infreddolite dal gelo della notte e un cuore lacerato dalla smania di possedere risposte.
“Corri, corri, corri”; lo ripeto come un mantra. Quest’imperativo categorico scandisce il mio andare e batte implacabile sui pensieri permeandoli, agitandoli, scuotendoli. Mi giro e, come un folle, sorrido un po’. Penna, ridendo, mi dice di smetterla: “Sembri un folle!”.
Fortunatamente lei, col suo colore brillante, equilibra il grigiore dell’asfalto. La strada percorsa con gambe stanche si erge solitaria in lontananza. Lettore, devi esserne informato: la strada su cui striscio, cammino, corro e volo non è una qualunque. La mia vita è una fuga, una incessante lotta per la sopravvivenza e l’autoaffermazione. E’ un moto convulso, incoerente, privo di un centro di consistenza.
Corro per vincere.
Ho un testimone da passare disperatamente per affluire nel fiume in piena dei grandi uomini, per porre un mattone al tempio dell’esistenza e recitare magistralmente la mia parte.La via su cui mi affanno non è lastricata di persone, ma di parole da urlare.
Corro perché ho qualcosa di potente da dire.
Socchiudo gli occhi per scorgere qualcosa alle mie spalle. Sacco mi dice: “Appoggiami a terra. Non sei molto furbo..sono pochi i momenti in cui puoi liberarti del mio peso, non ne approfitti?”. Lo appoggio a terra per riposarmi. Sacco parla troppo, ed è comprensibile! Contiene solo parole, parole, parole. In lontananza non c’è nessuno.
C’è solo lui. Lui.
Lui c’è sempre, e corre molto più veloce di me. Lui è instancabilmente abile, un ladro scaltro dagli scatti rapidi, imbattibile in esperienza; rapisce e colleziona una ad una le corse passate, porgendole in dono a suo fratello e intrappolandole nel suo blocco spazio-temporale. Ricopre con un velo di polvere tutta la bellezza delle cose, vanifica l’atto dei ribelli.
Desolato è colui la cui vita scivola e muta in massa informe senza che nessuno ne succhi il nettare fino al midollo: desolato ero io, fino a che non conobbi la parola, fino a che non iniziai a accarezzarla e pregarla di trasmettere quella che per me era una verità atemporale. Iniziai la mia corsa disperata contro Lui, armato solo delle mie suole ormai logore e di parole.
La corsa voleva acquietare un turbinio di domande: cosa resterà? Cosa resterà di questi giorni, di questo vortice di attimi? Cosa resterà di questa vita che scorre densa e copiosa nelle vene e che fluisce immensa e potente dalle mani, dagli occhi, dal cuore? “Una forza bestiale”, pensai, “ha sempre fatto pressione in me, per non lasciarsi dilaniare da Lui”.
La paura di Lui, al punto da non poterne pronunciare il nome, chiude con la sua morsa di ferro il mio cuore, ingrigisce e toglie il fiato dagli occhi. Mi trascina con sé nel suo naufragio confuso; frena il procedere, impedisce il cammino con una totale paralisi.
Corro per non morire piano.
Intollerabile è l’idea di non esser parte determinante di qualcosa di grande, e di non contribuire ad inviare un unico grande messaggio in bottiglia a chi ne avrà bisogno. “Non so cosa sia” mi dico, riflettendo sulla fatica di un’interminabile corsa, sulle ampie falcate per acquisire terreno per ottenere come premio un orizzonte più nitido, un nuovo sguardo da condividere, un’idea da urlare dalla cima del mondo.
“Forse è innata paura umana della disintegrazione, o soltanto fisiologico bisogno d’esser in qualche modo ammirati o applauditi, o inclinazione naturale al dono”. Penso ai labirinti di pensieri inconcludenti in cui corro in circolo e sorrido ancora nella luce di un’unica e piena consapevolezza.
Corro per donare.
Mi fermo per riflettere. Sacco e Penna parlano tra loro; Sacco le manda delle occhiate ammiccanti, e Penna mette il suo inchiostro a disposizione per le parole. “Questa panchina sarà il trono della mia contemplazione” intanto affermo, e nel farlo rido di me e della mia vena melodrammatica.
Il dinamismo della corsa mi estenua e a volte penso solo una cosa: beata leggerezza. Vorrei fermarmi e planare sulle cose dall’alto con ali di gabbiano. Accarezzarle dolcemente coi miei occhi da bambino ogni giorno in grado di stupirsi senza l’oppressione di Lui.
Vorrei rinnovarmi nella luce maieutica di un’alba tenue, nelle mie piccole e semplici contemplazioni, nella dolcezza di un biancospino sulla strada e nel tendere in aiuto una mano. Vorrei solo volteggiare sull’increspatura dell’acqua con immensi slanci vitali.
Vorrei. Non vorrei invece la viscerale smania di penetrare a fondo, di portare i polmoni al limite, l’ossessivo bisogno di senso.
Vorrei amare e non capire, perché cosi la corsa sarebbe meno intensa e il dono più spontaneo e genuino.
Vorrei vivere senza la malattia del doloroso sentire che grava sulle mie spalle come una maledizione, una colpa senza perdono. Mentre corro mi inarco in avanti, e spesso il peso mi atterra; è lì, quindi, che inizio a strisciare per allontanarmi sempre e ancora da Lui.
Vorrei una strada che sia scrigno dell’essenza eterna delle cose; vorrei una strada che sia pura luce, ma so che la luce non è se non è buio. Così vorrei: correre libero e anarchico, da grande solitario.
Fine dei pensieri. Mi alzo; la pausa è durata così poco da non aver migliorato le mie condizioni. Sono esausto. Vorrei stendermi nel bel mezzo della strada e aspettare l’arrivo di un passante che mi dica: “alzati. Il mondo è finito. Sei libero”. Mi guardo ancora indietro e mi folgora la consapevolezza che no, non finirà mai. Sono destinato a correre.
Corro per affermare.
E per affermare, bisogna vivere. E per vivere non bisogna farsi macinare da Lui. Per questo ricomincio la mia corsa, riprendendo Sacco e Penna. Frugo nel mio Sacco di parole e tento di combinarle in maniera unica per seminare messaggi lungo la strada. Mi consola l’idea che Lui inghiottisce tutto tranne le parole.
Ho sempre ritenuto che nelle parole risieda, ferma e irremovibile come un Buddha nella posizione del loto, l’essenza eterna delle cose. Converrai, lettore, che donarti i miei pensieri (banali e superflui che siano) sia una delle forme più alte di amore. Donare è ricevere; non smetto mai di correre donando ed in cambio ottengo la speranza d’esser in qualche modo utile a te, sfuggendo dalla dannazione della memoria.
Nella frenesia della mia corsa provo quindi, con l’unica arma che ho, a distendere le pieghe dell’anima troppo a lungo attanagliate da una spirale di silenzio, a svelarti il mio sangue misto e contraddittorio porgendo con cura nelle tue mani la mia verità. Spero cosi di vincere su Lui e aiutare te col mio inno alla vita e alla speranza, in modo che tu possa imparare l’arte dei piccoli passi.
Corro per insegnarti a correre.
Voglio renderti tangibile il forte sentire della vita e accendere l’amore e il dolore nelle mie parole, per trasmetterti quel piccolo spiraglio di buono che è in me. Corro fino ad avere fiato; mi accorgo però di essermi nuovamente perso nella matassa di pensieri dentro me, e intanto fuori ha iniziato a piovere.
Piove spesso qui: le giornate procedono lente, ogni giorno si staglia all’orizzonte il presagio di un temporale e dopo un’esplosione di rabbia la luce ricomincia a colare piano e tutto tace. Sotto questa luce soffusa mi riposerei; aprirei un buon libro ai piedi di un albero e annullerei il mondo circostante.
“Se solo la mia vita non fosse una eterna fuga” constato con amarezza. Una lacrima scivola velocemente sulla mia guancia e la solca, nascosta e protetta dalla pioggia. Mi soffoca il senso di responsabilità, quasi cado; sono schiacciato dall’impresa titanica a cui ho consacrato la mia strada.
Con dedizione ho donato tutto al mio obbiettivo; ho sovvertito ogni schema e ogni regola, ho frantumato la mia bussola morale. Il nord non lo segna più; il Nord ormai è Avanti. E’ Avanti il posto verso cui correre, non importa con esattezza dove. Importa solo correre.
Corro per andare. Andare e basta.
Sacco colmo di parole pesa sulla schiena, e mentre rischio di scivolare sento l’affannoso respiro di Lui sul mio collo, la sua oppressione mentale e il suo tentativo di dissolvermi. Penna sembra preoccupata per noi e per il mio procedere; ripete spesso che le sembra un’agonia. Agonia o meno, ho un disperato bisogno di correre.
E’ questa la mia triste storia; può finire anche qui, all’inizio della sua sgualcita terza pagina. E’ una storia lineare, lettore: non ho grandi gesta da narrare con esaltazione, non ho fiabe da mille una notte. Ti avevo già avvertito nell’esordio, ho molto poco con me. Non pensare che ti abbia nascosto l’identità di Lui per attirare la tua attenzione. No, non è così.
Il motivo è: ho paura.
Però so che ora, grazie a te che ascolti le mie parole e dai un senso al mio correre, è giunto il momento di dirtelo.
Lui è il fratello di Oblio, che ti accennai in precedenza: è Tempo.
La mia è una corsa, destinata a fallire. La mia è una corsa contro Tempo nel tentativo disperato e ossessivo di arrampicarmi con le unghie al mondo, di seminare un germoglio che possa essere anche quando io, invece, smetterò di essere. Tempo mi è dietro, costantemente. Tempo è una ossessione. So di essere destinato a soccombere. Ho deciso però, ugualmente, di raggiungere il più
Avanti possibile, e di seminare più parole possibili alle mie spalle. Cammino con in pugno Penna. Lei spesso mi dice: “Stringimi più forte! Credo in te!” Io la amo ma lei è nello stesso tempo la mia eterna dannazione. Quello che mi crea mi distrugge. Mi unisce e mi spezza. Mi forgia e mi fonde. Ma non posso separarmi da lei: lei, ormai, sono io. E’ il mio mezzo. Lettore, credimi, non sono pazzo: ho solo un sogno, e il confine tra le due cose è spesso sottile.
Corro per realizzare un sogno.
Sacco, riferendosi alle parole che contiene, mi dice: “Ho le carte vincenti. Ora sta a te e Penna giocare”. E io, gioco.
Corro per giocare.
Tempo mi divorerà, lo so. E solo a pensarci mi fermo, alzo gli occhi al cielo e spero che le mie lacrime si confondano con la pioggia.
Ma questo, lettore, è il destino di tutti: non possiamo sfuggire. Possiamo però decidere di non fermarci, e fare il possibile per lasciare incisioni lungo la strada, segnali di fumo o messaggi in bottiglia; insomma, fare di tutto per correre. Chissà, un giorno, qualcuno li coglierà, ne capirà il senso profondo e li sfrutterà a sua volta per correre, in un eterno flusso.
Forse questo è già successo: forse, mentre tu leggi, io non ci sono più. Forse Tempo è già arrivato.
Lettore, non dispiacerti per me: la saggezza sta nel capire quando non si può cambiare qualcosa. La saggezza sta nell’accettarlo. Conosco Sacco: lui non sa accettare. Quando Tempo mi annienterà, quando diventerò polvere o vento, Sacco andrà via. Lui e le sue parole cercheranno un corridore simile a me, disposto a consacrare la propria vita per donare un messaggio.
Sacco fa così dall’inizio dei tempi: cerca la vocazione al dono, e quando la trova in qualcuno, si dona a lui. Lo accetto: non sono né l’inizio né la fine. Sono un’unica piccola tessera di un mosaico eterno, di un progetto sovrumano che unisce tutti gli uomini esistiti, che esistono e che esisteranno.
Non importa.
Combatto Tempo con la mia scrittura; io morirò, ma il mio Sacco e Penna mi renderanno eterni. Faccio parte di una Grande Storia, e ne sono grato: la storia di una strada, di una corsa, di Sacco e di Penna.
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