Castelferretti, vivere in un paese di appena cinquemila abitanti

Castelferretti, vivere in un paese di appena cinquemila abitanti

Vivere in un paese di appena cinquemila abitanti può essere limitante, ma può anche offrire risvolti inusitati.


Ricordo il giorno in cui ero ancora adolescente e mio padre, seduto al tavolo di cucina, comunicò a mia madre e a me che le Ferrovie dello Stato gli avevano concesso un appartamento ad Ancona.
Lo disse con responsabilità, ma il suo viso non era sorridente e quando mia madre e io, con molta spontaneità e immediatezza, dimostrammo il nostro dissenso a trasferirci nel capoluogo della regione, si rilassò felice.

Avevamo tutti e tre il desiderio di rimanere al paesello, profumato e tranquillo.
Erano gli anni ‘60 e il profumo della campagna che arrivava in Via della Franca, così chiamata dal tempo del Medioevo in cui non si pagava la gabella, deliziava i pomeriggi di noi ragazzini che giocavamo sulla strada.
Le mamme, intanto, ricamavano biancheria a mano radunate a piccole crocchie davanti alle abitazioni.
Il profumo veniva dalla campagna, estesa subito dopo le case, dai fiori spontanei e dalle coltivazioni.
L’atmosfera di serenità, di calma e di allegria si consumava in questi quadretti di vita autentica.
I minuti erano collegati fra loro in modo lineare e sciolto con uno svolgimento logico, fedele a concretizzare una realtà vissuta fine a se stessa.
In tarda primavera e in estate, anche la sera dopo la cena, si tornava sulla strada a scambiare chiacchiere e racconti con i vicini di casa e noi ragazzini giocavamo a rincorrere le lucciole che illuminavano il selciato.
Ci si accontentava di poco ma avevamo tutto: la vita salubre, l’amicizia, la famiglia, il paese che ci proteggeva.
Qualche anno più tardi, il nostro divertimento divenne la passeggiata domenicale intorno al Castello.
Ci si preparava il pomeriggio come se dovessimo andare a passeggiare per il corso principale di una grande città e con gli amici ci si incontrava in piazza, davanti all’arco centrale del Castello per fare giri intorno alle mura.
Il Castello era il fulcro del paese perché i negozi, benché pochi, alloggiavano nelle vecchie stamberghe del maniero rimesse a nuovo e aprivano le loro vetrine illuminate.
Il Castello, unico e grande cimelio di anni passati, il luogo di ritrovo per incontri amichevoli e culturali, il nostro cuore pulsante, il nostro simbolo!
Eppure ha perso il suo alone di mistero perché divenne Comune già dal 1817 (oggi solamente una piccola parte appartiene alla Amministrazione Comunale) e quindi di proprietà privata.
Non ha abbandonato, però, la sua importanza culturale e l’ha tenuta viva soprattutto negli anni ’70, in cui era consuetudine ritrovarsi in piazza, davanti alla facciata principale, per discutere di politica, di società, di cambiamento, di tradizioni, di valori culturali e civili.
Fino a poco tempo fa, noi paesani avevamo anche il nostro polmone verdeggiante, per camminate, merende, trekking fuori porta, un posto molto gradevole, Montedomini.

Una collina di appena 100 metri di altezza, sormontata dalla Villa seicentesca dei Conti Ferretti con annesse due case coloniche ormai scomparse e completamente abbandonata all’incuria dell’uomo!
Trecentosessanta scalini per raggiungere la vetta, fra due file di pini secolari, meta di incontri amichevoli e sentimentali, romantico luogo lasciato, come un regalo, agli abitanti del paese dai Conti Ferretti!
I tempi sono cambiati, il territorio del paese si è ampliato di molto. Gli abitanti non sono più soltanto quelli autoctoni, ma la popolazione è ora eterogenea per provenienza, la zona industriale ormai ci ammorba e il paese è costretto fra strade e autostrade, aeroporto e industrie.
Esiste una volontà palese e silenziosa fra la gente di tornare ai tempi passati, più o meno cosciente della capacità di difendere il valore che un piccolo paese possa offrire ai suoi abitanti.
Siamo al tempo del coronavirus e siamo tornati alle origini della natura.
Mi svegliano gli uccellini al mattino, il loro cinguettio proviene dall’alto dei tetti e dai merli, dagli orti rimasti incolti, dalla piazza ove girano indisturbati come nuovi turisti, increduli di questa nuova realtà silenziosa e nel contempo rigenerante.


L’orologio del Castello risuona liberamente i suoi rintocchi.
Passeggiano gli uccellini che non hanno timore di incontri e cantano, mentre il rosa dell’alba colora i mattoni delle pareti del Castello.
L’aria non è più densa, è tersa ed evanescente e l’odore acre, diffuso fino a qualche mese fa, lascia ora spazio al profumo dei tigli sempre più rigogliosi che circoscrivono la piazza.
È tornata la poesia ed è questa che vorremmo regnasse in paese.
Il lavoro, il correre dietro agli impegni, l’affaticarsi per raggiungere scopi, obiettivi, interessi, luoghi, ci richiama?
Non c’è la nostalgia di una vita affaticante e non sempre piacevole.
C’è invece bisogno di un clima di calore affettuoso e avvolgente, profumato e silenzioso, in cui sia possibile ascoltare i nostri bisogni reali e i nostri sentimenti.

Il cuore deve battere per amore e non per paura o sofferenza, insieme all’orologio di un tempo, ovvero quello che scandisce le ore vissute e non temute.
Le ore che possiamo tenere nei nostri ricordi a sottolineare che un periodo non è stato dissipato quando vissuto teneramente, hanno disciplinato il nostro io interiore, hanno permesso alla nostra vita di conquistare una coscienza umana.
È questo un momento di crisi, speriamo che il vecchio muoia per dare vita al nuovo, ricominciamo dall’inizio.
Ed è con questa volontà che la gente, munita di mascherina, inizia a girare intorno al Castello, fra un negozio e l’altro, parlando a due metri di distanza con una certa circospezione e con buon senso.
Gli uomini semplici sono sempre stati filosofi e possono ancora operare per una nuova concezione del mondo e ridare una nuova luce al paese che non vuole tradirli.

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