Che si tratti di lavorare la seta o automobili di qualità, bastano 2 anni per perdere il know how industriale ma ce ne vogliono venti per ricostruirlo.
Saper fare è diverso da avere le conoscenze scientifiche e chiunque abbia letto un libro di economia sa che, ad esempio, l’impegno per la creazione di un brevetto corrisponde a meno del 20 % del lavoro per la sua trasformazione in prodotto industriale.
Per questo esiste una differenza marcata fra università e impresa ed è difficile farle collaborare e comprendersi reciprocamente. Entrambe sopravvalutano la loro importanza e sminuiscono il valore della controparte, al punto che ognuna cerca di fare il lavoro dell’altra a discapito dei risultati finali.
La storia della seta in Italia ha seguito un percorso simile. A meno che non siate un baco da seta, fare la seta non è una operazione semplice, e trasformare questo filamento naturale in un filo di seta per la tessitura è particolarmente impegnativo, soprattutto se l’ambizione è quella di competere con la seta nel mercato dell’alta gamma, dell’eleganza e del lusso.
L’Italia era stata per anni leader nella realizzazione di tessuti raffinati, i broccati di velluto di seta erano il “petrolio” della Repubblica di Venezia. Poi quaranta anni fa le filande hanno smesso di lavorare la seta, l’ultima filanda si utilizzò solo come esempio di archeologia industriale. Questo fino all’arrivo di Salvatore Gulli.
Salvatore viene dalla Sicilia e si è innamorato della seta durante una gita scolastica. All’epoca della scelta dell’università opta per ingegneria dell’automazione con il sogno di lavorare in una filanda e lavorare la seta. Nessuno può più insegnarglielo e per la tesi di laurea va sette mesi in Giappone per recuperare il sapere tecnologico.
Salvatore, come è stata la tua esperienza in Giappone?
Molto interessante, ho imparato molte tecniche fondamentali per lavorare la seta, sia manuali che automatiche e so che il cammino verso la perfezione non sarà facile e breve, ma la strada sarà emozionante e penso che possiamo tornare a lavorare seta di grande qualità in Italia.
L’incontro con la cultura giapponese per alcuni versi è stato traumatico, la lingua e la ritualità dei gesti non mi sono ancora familiari, ma la loro tecnologia per lavorare la seta è fra le migliori ed era l’unico modo per capire come funzionano le filande.
Su cosa stai lavorando ora?
Con l’impresa orafa D’orica, il supporto del CRA di Padova e con il cappello di Energitismo abbiamo rimesso in funzione una filanda e tessuto i primi bozzoli italiani.
L’idea è di realizzare gioielli oro e seta combinando le sferette d’oro caratteristiche di D’orica con seta 100 % italiana e di presentarli a gennaio alla Fiera dell’oro di Vicenza, una delle più importanti del settore.
Pensi che sia possibile tornare a lavorare la seta in Italia in modo industriale?
Devo ammettere che non immaginavo quanto interesse sarebbe nato attorno alla prima seta lavorata; sentendo i commenti e le richieste di informazione che ricevo, penso ci sia un grande desiderio di tornare a completare l’intero ciclo produttivo: partendo dalla coltivazione dei gelsi, dall'allevamento dei bachi da seta e dalla produzione dei bozzoli fino alla tessitura e al capo finito, campo in cui l’Italia svolge ancora un ruolo di primo piano sul panorama internazionale.
A chi volesse maggiori informazioni su come lavorare la seta suggerisco di rivolgersi ad Energitismo o al CRA di Padova per avere indicazioni su quali sono i primi passi da compiere per intraprendere la produzione della seta.
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